Il mio palcoscenico

La vita è un palcoscenico, scriveva Shakespeare, e io, anni fa, riflettendo su queste parole (e leggendole in lingua originale capii che lo stage come incontro di formazione va pronunciato alla francese e non utilizzando la lingua del grande bardo), pensai che in qualche modo quella frase fosse un invito implicito a vivere la propria vita da protagonista; a recitare ogni giorno la parte che mi era stata assegnata, in un meccanismo quasi simbiotico con tutto il resto della compagnia. E non era importante il numero di battute che dovevo dire ma l’intonazione, il carisma, e sopratutto la scelta di tempo.
Il mio dovere era farmi trovare concentrato e pronto al momento giusto; e soprattutto non dovevo mai distrarmi, farmi trovato impreparato; non doveva assolutamente succedere che tardassi la mia battuta, o, addirittura, che la bucassi. Ogni lasciata era persa, e io odiavo perdere. O almeno così credevo.
Oggi, con un paio di decenni in più sulle spalle, mi rendo conto invece che io su quel palco non avevo molta voglia di salirci, che non lo sentivo come il luogo a me più congeniale. Altri mi dicevano che lo fosse e io, nell’arroganza della gioventù, mi attaccavo al desiderio di dovergli credere. E allora salivo i gradini con aria importante e montavo lì sopra, pronto a indossare la maschera che credevo di dover mettere sù in quel momento. Ma gli anni ogni tanto ci regalano qualcosa; e nel mio caso, in modi spesso imprevedibili e contorti, mi hanno donato un pizzico di consapevolezza che non guasta mai. Mi accorgo quindi che io sto più comodo qui in platea, seduto, sulla mia poltrona di velluto rosso, a guardare. Ad ammirare estasiato i visi e i movimenti di quanti mi circondano. A godermi la possibilità di scrutarli quando non sanno di essere guardati, quando il sorriso montato su all’occorrenza lascia il passo a una malinconia fuggevole negli occhi; oppure quando succede il contrario. E adoro cercare di raccontare, a parole mie, tutto quello che vedo; e, spesso, anche quello che non vedo. Quello che ascolto, e le frasi nascoste nei silenzi, immaginando, con una fantasia che ormai mi sono rassegnato a non vedere mai ferma, storie e pensieri che forse non esisteranno mai o che forse esistono già prima ancora di essere partoriti.
Raramente scrivo di me, delle mie emozioni; non amo i brani autobiografici (ci voleva questa eccezione per confermare la regola), proprio perché sono troppo impegnato ad aprirmi a un respiro di meraviglia guardando questo palcoscenico sconfinato, dove gli altri, splendidi attori, si muovono in sintonia perfetta. E quasi tutto quello che scrivo cerca di ricreare negli altri le emozioni che loro stessi mi hanno trasmesso e di cui sono spesso inconsapevoli. E più vado avanti e più mi rendo conto che quei famosi gradini non mi interessa più salirli; che il mio palco personale è dentro le mie parole, e che lascio agli altri, a chi è in grado, l’onore di calpestarli. Io sto sempre più comodo sulla mia poltrona; col il viso leggermente all’insù e gli occhi pieni di meraviglia. Che lo spettacolo continui.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *